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C.I.P. n. 6 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE
INCENDIO DOLOSO IN UNA PALAZZINA IN VIA LIBERO LEONARDI - ROMA
CONTRIBUTI DI TRE PSICOLOGI COLLABORATORI DEL CENTRO ALFREDO RAMPI ALLE PRIME ESPERIENZE NELL’AMBITO DELL’EMERGENZA
L’ANSIA "TRASFORMATA"
Rosita Maglio
Psicologa, volontaria del Servizio Civile presso il Centro Alfredo Rampi
Avevo già sentito parlare della psicologia dell’emergenza, del suo campo di applicazione e di tutto ciò che riguarda la cultura del trauma. Non avevo, però, immaginato cosa volesse dire e cosa potesse significare intervenire in emergenza.
E’ il 27 ottobre 2008 quando in Associazione arriva una telefonata che avvisa della necessità di un intervento per l’emergenza di via Libero Leonardi. La telefonata, seppur breve, lascia subito ad intendere che la situazione è poco chiara e sicuramente complicata.
Tutto mi diventa difficile. Capisco che andrò con Gabriella (psicologa PSIC-AR) sul luogo dell’incidente e ne sono al tempo stesso terrorizzata ed incuriosita. Ben presto, però, la curiosità lascia spazio alla mia paura: milioni di domande cominciano a formularsi nella mia testa mano a mano che ricompongo le poche informazioni che ci sono arrivate. Seppure il mio corpo segue quello della mia collega, il mio cuore e la mia mente sono già lì, ad immaginare come l’incendio abbia potuto bruciare il condominio, quello che troverò una volta lì e cosa vedrò.
Mi rendo conto che la mia mente viaggia molto più velocemente del mio corpo, non so se immaginarmi lo scenario, se dirmi di aspettare oppure se la cosa migliore da fare in questo caso fosse pensare ad altro. Tutto inutile! Ogni tentativo cosciente di rimozione fallisce imprevedibilmente. E io sono senza difese.
All’improvviso mi ritrovo sulla metropolitana e Gabriella riesce a rassicurarmi, comprendendo la mia ansia. Mi dice cosa posso fare e cosa assolutamente non fare, in quanto sono una psicologa non specializzata in emergenza. Ma come credo capiti spesso in situazioni del genere, qualsiasi tentativo di distrazione ha breve durata, l’ansia ritorna e si placa solo nel momento in cui mi trovo lì sul posto.
Solo allora riesco a confrontare tutto quello che la mia mente aveva disegnato così bene nella mia memoria e a dare un senso ed un peso reale alla mia paura. Paura di trovarmi di fronte ad una situazione ingestibile emotivamente, troppo grande per le mie risorse e le mie forze.
Lo scenario che mi si presenta è senza dubbio inquietante, critico ed impressionante, ma ha la capacità di calmare il mio stato di apprensione e, in un certo senso, di tranquillizzarmi. Il palazzo è un pilastro nero, l’odore di bruciato è ancora nell’aria e un ombra di silenzio impera su tutto, non ci sono parole. E’ stata scampata la tragedia, questo è chiaro a tutti. Solo la rabbia si percepisce sui volti degli inquilini; comprensibile, innegabile.
La mia paura, allora, diventa collaborazione; perde la sua connotazione fisiologica e diventa "messa in atto", fare qualcosa, qualsiasi cosa utile.
Gli inquilini, collocati nella vicina chiesa, avevano ricevuto un pasto caldo ed era stato allestito un centro di primo soccorso che cercava di inviare gli sfollati in alloggi provvisori.
Il mio contributo è stato quello di raccogliere e dare informazioni utili a tutte quelle persone che erano confuse, che avevano notizie sbagliate, un aiuto logistico-operativo.
"NON POTEVO CERTO IMMAGINARE…"
Michele Grano
Psicologo, volontario del Servizio Civile presso il Centro Alfredo Rampi
Finora l’emergenza era stata per me un interessante argomento da studiare o da rievocare attraverso testimonianze altrui, al massimo da osservare come spettatore nel corso di esercitazioni per soccorritori e psicologi; non potevo certo immaginare che in un momento, quasi all’improvviso, prendesse forma concreta dinnanzi a me, con la sua portata di imprevedibilità ed urgenza, interpellando me, la mia responsabilità. Il tragitto in Metro verso la palazzina rappresenta l’occasione per scambiarci informazioni sul disastro, per confrontarci sul nostro intervento (e, per me che non sono ancora uno psicologo dell’emergenza, capire cosa possa o non possa fare); per prepararci, insieme, alla situazione fisica ed emotiva che tra poco incontreremo.
Finalmente arriviamo. Il palazzo è lì, si staglia come un nero menhir sullo sfondo del cielo grigio. Le prime sensazioni personali di fronte a questo scenario sono in prevalenza fisiche: le gambe tremano, la voce sembra non voler più uscire. Ci viene incontro un volontario della Protezione Civile incappucciato sotto la divisa; ci presentiamo rapidamente. Dice che ci stavano aspettando, segnalandoci un paio di casi che secondo lui meriterebbero la nostra attenzione, risponde alle nostre domande sull’evento. «Il fuoco è stato appiccato da alcuni balordi che hanno bruciato un’auto…l’incendio è divampato ai primi piani per poi diffondersi fino in cima…E’ un miracolo che le fiamme non abbiano raggiunto le tubature del gas e che nessuno abbia perso la vita».
Al momento del nostro arrivo, alcune famiglie colpite sono in attesa di poter salire momentaneamente nelle loro case per recuperare vestiti, oggetti, ed altri effetti personali. Una collega ascolta una donna che le espone la sua difficile situazione, legata alle difficoltà di una figlia psicologicamente molto fragile. Io rimango in ascolto di alcuni volontari di Protezione Civile che sentono l’esigenza di esprimere vissuti ed impressioni legati ai loro interventi: immediatamente, anche in assenza di un setting strutturato, si crea tra la collega e le persone interessate un clima di dialogo che evidenzia la volontà di andare oltre il semplice intervento operativo e riflettere sulle esperienze affrontate; immediatamente si sperimenta la potenzialità del raccontare come primo momento di fronteggiamento e di elaborazione delle emozioni e delle esperienze intense.
Ha smesso di piovere ed io mi rendo disponibile ad aiutare una vigilessa a smistare alcune famiglie in attesa di salire nelle proprie abitazioni. Subito dopo, approfitto di un momento di calma per affacciarmi sul piazzale dove sono parcheggiate le auto incendiate; sono più numerose di quanto mi fosse sembrato inizialmente, è una scena impressionante. Quasi automaticamente affiorano alla memoria le parole di una vecchia canzone di Guccini: "Dopo, il silenzio soltanto è regnato tra le lamiere contorte…", immaginando le urla e i gesti convulsi degli abitanti durante la fuga dal rogo che stava distruggendo le loro dimore, ai quali deve essere seguito un lungo, attonito silenzio: di smarrimento, sconcerto, dolore. Mentre sono fermo a guardare questa scena, una delle colleghe viene a chiamarmi. «È ora di andare».
Memoria e tesoro dell’importanza del lavoro di rete osservato in questi frangenti, della collaborazione tra forze dell’ordine, operatori di soccorso, gli psicologi dell’emergenza e le altre istituzioni presenti (ad esempio la scuola che ha richiesto interventi mirati per i minori coinvolti, la vicina parrocchia che ha concesso spazi di accoglienza, i comitati di quartiere che si muovono per sollecitare risposte dal mondo politico). Memoria e tesoro della solidarietà tra le famiglie, tangibile negli sguardi, nelle parole, nella vicinanza che si viene a creare tra conoscenti che, all’improvviso, si trovano ad essere compagni di sventura e di speranza.
Memoria e tesoro di alcune realtà che non potevo certo immaginare così intense e incisive: innanzitutto il senso di conforto immediato delle vittime nel momento in cui hanno – e si concedono – la possibilità di trovare sostegno ed ascolto presso un esperto che li aiuta a cominciare ad elaborare l’esperienza vissuta, a superare il senso di isolamento e ad acquisire informazioni utili a fronteggiare i disagi. E, contemporaneamente, l’espressione di sollievo e riconoscenza, dipinta sul volto degli operatori di soccorso nel sapere che un gruppo di psicologi fosse lì con loro e per loro, per far fronte comune alle esigenze delle vittime e dei loro familiari.
LA MIA PRIMA ESPERIENZA SUL CAMPO
Alessia Rosa
Psicologa tirocinante presso il Centro Alfredo Rampi
Lunedì 27 ottobre: Timorosa ma entusiasta dell’opportunità che mi era stata data per fare esperienza sul campo, sono arrivata verso le 14:30 in via Libero Leonardi. Scesa dal bus ho alzato gli occhi ed ho visto un enorme palazzo tutto nero. Ad aspettarmi nella vicina parrocchia di San Giuseppe due colleghe. Non c’erano molti inquilini del palazzo, i pochi rimasti erano in attesa degli alloggi. Nei loro occhi solo tanto bisogno di aiuto ed io mi sono sentita inutile, impotente, davanti alla sofferenza, alla paura, alla disperazione di gente che appena poche ore prima aveva visto in faccia la morte e le loro case lentamente andare in fumo assieme agli oggetti più cari, ai ricordi.
Una signora, con le lacrime agli occhi, spiega ad una psicologa come tra il fumo era riuscita a scendere in strada dall’ottavo piano. Una donna anziana attira la mia attenzione. Seduta su una sedia, la faccia stanca, ma piena di dignità, in attesa di una sistemazione aveva un unico pensiero: occuparsi del suo gatto e del suo cane.
Poco prima delle 17 la situazione si è tranquillizzata, forse anche per l’arrivo del sindaco Alemanno. Probabilmente gli evacuati hanno visto in lui un’ancora di salvezza, si sono sentiti al centro dell’attenzione pubblica e questo li ha confortati.
Martedì 28 ottobre: Nuovamente in via Leonardi. Gli sfollati fanno la fila per prendere qualcosa dagli appartamenti. Un volontario della Protezione Civile, ci segnala un paio di persone che hanno richiesto il supporto dello psicologo. Piove… a noi si avvicina una signora bionda, parla con la psicologa. Mi defilo per lasciare loro un po’ di privacy. I condomini salgono pochi alla volta accompagnati dai vigili del fuoco e dagli agenti della polizia municipale. Rimaniamo ancora un po’, per vedere se c’è bisogno di aiuto, poi andiamo via.
Sono sempre convinta di essere inutile, ma forse anche solo la presenza conforta un po’ tutti.
Giovedì 30 ottobre: Stamane siamo arrivate verso le 10 nel quartiere di Cinecittà Est. Si avverte un po’ di tensione nell’aria oggi…
Forse gli sfollati incominciano ad avvertire il senso di abbandono… In effetti rispetto agli scorsi giorni il personale dei vigili del fuoco e della polizia municipale e decisamente ridotto. L’entrata negli appartamenti è ritardata dall’intervento dei vigili del fuoco che tentano di rendere il palazzo il meno pericoloso possibile facendo cadere i pezzi di tende, vasi e piante pericolanti. Ovunque regna un po’ di confusione.
Le mie colleghe parlano con un paio di condomini, io osservo, scambio impressioni con i volontari della Protezione Civile. Nel corso della mattinata gli animi si scaldano: comprensibile, poiché ci sono persone che attendono da ore di salire e perché le comunicazioni da parte della Autorità non sono sempre chiare e puntuali…
Assieme ad una collega gioco con due bambini, Yesil (3 anni) e Sara (2 anni) entrambi molto scossi dall’accaduto e in attesa del ritorno dei genitori che nel frattempo erano saliti nel proprio appartamento per prendere alcuni oggetti.
Verso le 13 siamo andate via. Il pomeriggio a casa ho riflettuto…
Sono incavolati, vogliono giustizia! Sanno che l’incendio è stato doloso e sono pieni di rabbia verso coloro che hanno distrutto le loro case! Mi rendo conto che si sentono abbandonati… ormai sono stati già dimenticati, neanche i giornali della Capitale si interessano più a loro.
Ma non devo essere ipocrita, probabilmente se non mi fosse stata data la possibilità, se non fossi stata lì per ore a guardare negli occhi quelle persone, avrei dimenticato in fretta anche io.