Abruzzo: indagine dei bisogni a sei mesi dal sisma - Conosco Imparo Prevengo

PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE, PROTEZIONE CIVILE, SICUREZZA, TERRITORIO
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Abruzzo: indagine dei bisogni a sei mesi dal sisma

Archivio > Dicembre 2009 > Psicologia delle emergenze

C.I.P. n. 9 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE
INDAGINE DEI BISOGNI A SEI MESI DAL SISMA
GLI PSICOLOGI DELL’EMERGENZE ALFREDO RAMPI CON LA POPOLAZIONE DI SAN VITTORINO
Luana Proietti
Psicologa clinica e di comunità, socio Psic-Ar, Psicologa dell’ emergenze Alfredo Rampi

Il giorno 22 settembre sono arrivata al campo di San Vittorino per dare un contributo all’intervento di Psicar sulla maxiemergenza terremoto che circa sei mesi fa ha colpito l’Abruzzo.
Prima di arrivare al campo nella mia mente si faceva presente e assillante il pensiero di cosa avrebbero potuto avere bisogno gli abitanti del campo dopo un periodo di convivenza abbastanza lungo nelle tende e lontano dalle loro case. In particolare riflettevo su cosa poteva significare a livello emotivo e cognitivo il prolungamento di una situazione lontana dalla normalità del quotidiano, e come questa poteva essere vissuta (adattamento?... e quanto? rabbia? dolore? senso di impotenza?).
Mi sono detta allora che la prima cosa da fare non appena arrivata sarebbe stato un assessment accurato della situazione, per capire come avevano vissuto il mese di agosto, cosa avevamo dato loro come associazione e cosa ci restava da fare.
Mentre nella mia mente vagavano questi pensieri, mi sono accorta di essere arrivata al campo di San Vittorino. Non appena scesa dalla macchina, ho incontrato tre bambini D. e F. e S.  che giocavano con delle pentoline e che mi hanno offerto delle mandorle prese da un albero del campo.
Dopo la dolce accoglienza dei bambini, ho iniziato la fase di assessment attraverso l’osservazione del campo e di chi ne faceva parte (abitanti ed operatori) cercando di reperire informazioni dal capo campo e dagli altri volontari. Ho cercato di dividere la mia valutazione in osservazione e dialogo per capire cosa veramente mi veniva richiesto e quale era la parte di me che utilizzavo nell’intervento.
Dalla mia osservazione è quindi emerso:

  • la gioia degli abitanti, soprattutto anziani che in quel momento stavano giocando a carte, quando siamo arrivati;

  • la desolazione di un campo per metà già smantellato;

  • gli occhi tristi di alcune persone mentre parlavano delle loro incerte future sistemazioni;

  • gli occhi arrabbiati di coloro che vedevano violati i loro diritti e deturpate le loro esistenze;

  • l’assenza, il far finta di nulla e la negazione di altri ancora.

Le richieste degli abitanti sono state:

  • il bisogno di parlare del loro futuro prossimo in particolare riguardo lo smantellamento del campo;

  • la richiesta da parte di alcuni genitori di organizzare delle attività con i bambini, che per motivi di ristrutturazione dei locali ancora non erano tornati a scuola;

  • parlare di problemi del sonno, in particolare della difficoltà ad addormentarsi di due signore.

Dal dialogo con il capo campo ed gli operatori è emerso:

  • il bisogno di affrontare l’argomento dello smantellamento del campo;

  • il bisogno di mantenere per gli anziani il senso di comunità che hanno acquistato vivendo nel campo;

  • il bisogno di un sostegno agli operatori che hanno lavorato per sei mesi al campo;

  • il bisogno di un sostegno alle persone che sono rientrate in casa;

  • continuare il lavoro di rete con le associazioni e gli enti del posto e segnalare loro eventuali osservazioni ed invii.

Una volta fatto l’assessment ho fatto il punto della situazione assieme al collega che era con me al campo ed abbiamo deciso una scaletta degli interventi da effettuare, tenendo conto della loro eventuale flessibilità in base alle urgenze.
Abbiamo dunque deciso inizialmente di fare un giro nel paese per incontrare le persone già tornate nelle case per vedere come è andato il rientro e sostenerle in questo.
Abbiamo dato un appuntamento ai bambini per giocare e parlare un po’ (ci sembrava importante parlare almeno dell’argomento scuola).
Abbiamo detto agli abitanti del campo che prima e dopo cena saremmo stati con loro.
Mi sembra utile suddividere i vari tipi di intervento effettuati a San Vittorino per meglio sottolineare la poliedricità del lavoro dello psicologo d’emergenza.

LAVORO FUORI DAL CAMPO. Il primo intervento, quello cioè di farci un giro per il paese è fondato su una base teorica psicosociale secondo la quale il ruolo degli psicologi è quello di comunicare alle persone che nonostante il ritorno ad una quasi normalità e dunque il rientro a casa, continuano ad esistere nella mente degli operatori del soccorso e che, se lamentano difficoltà, non vengono ne verranno lasciate sole ma possono e potranno continuare ad avere il supporto necessario recandosi al campo. Ho riscontrato, durante il giro per il paese, quanto sia stato importante il lavoro svolto da Psicar in questi mesi nel creare un rapporto di fiducia con le persone: ho sentito subito la loro fiducia nel mio ruolo indipendentemente dal fatto che mi conoscessero o no. Ciò dimostra che fra noi psicologi c’è stato un buon lavoro di gruppo ed abbiamo potuto trasmettere alle persone tutto il supporto della nostra associazione. Inoltre, questo è stato proprio un caso in cui si doveva applicare il modello psicodinamico multiplo per le emergenze perché c’erano più elementi su cui lavorare: sociali e psicologici.
Gli argomenti che emergono dai colloqui con le persone sono sempre gli stessi: rabbia nei confronti delle istituzioni, rabbia per i danni subiti, paura per il futuro, dolore per la perdita o di persone care o della propria abitazione, dolore per la perdita del patrimonio territoriale, interrogativi sul futuro.

LAVORO NEL CAMPO. Finito il giro nel paese torno al campo per giocare con i bambini: giochiamo a racchettoni e a nascondino. Tra un gioco e l’altro si parla un po’ e sembra che loro siano quelli che abbiano subito meno danni rispetto agli adulti ed agli anziani, ed anzi, che l’esperienza di vivere nel campo tutti insieme, abbia insegnato loro le regole della convivenza e gli abbia regalato attimi di divertimento ed aggregazione.
Le persone adulte invece, hanno lamentato una serie di problematiche inerenti la mancanza di privacy, che si viene a creare vivendo così a lungo nel campo, il bisogno di tornare alla normalità per poter usufruire di maggiori spazi individuali. In questo caso mi sono limitata ad ascoltare attivamente quello che mi dicevano riflettendo empaticamente ogni tanto le cose che mi dicevano, visto che la loro, mi è sembrata una riflessione razionale di quello che stavano attraversando e che in me hanno trovato lo strumento per esplicitarla.

LAVORO CON GLI OPERATORI. Quando tutto mi sembrava risolto, mi sono accorta che nel tavolo degli operatori dove sedevo anche io, c’era un enorme bisogno di parlare, non del più e del meno, quanto dell’esperienza che avevano vissuto e che stavano vivendo. Mi sono così riattivata cognitivamente ed ho iniziato ad ascoltare il racconto di A., un infermiere che da quando è accaduta la catastrofe, si trova ad operare nel campo per tre-quattro giorni la settimana. Mi dice che, per lui, quest’esperienza ha anche un significato personale in quanto ha rappresentato la cura al burnout che stava vivendo nell’ambito lavorativo e che con questa esperienza ha ritrovato il senso del suo lavoro. Io ribadisco quanto sia importante fare un lavoro che ci piace e per il quale siamo motivati ma gli comunico la mia perplessità sul fatto che l’emergenza di altre persone possa essere la cura per la propria "anima" e gli parlo dell’importanza di una formazione a livello emotivo degli operatori che vanno a fare queste esperienze. Lui è d’accordo con me ed alla discussione si aggiungono altre persone che ritengono opportuna una maggiore formazione in questo senso. Anche il capo campo esplicita la richiesta di un eventuale debriefing  per gli operatori alla fine di quest’esperienza ed io mi faccio portavoce di questa richiesta alla mia associazione. Spiego poi insieme al mio collega, quanto sia importante per ogni operatore far riferimento al suo gruppo di appartenenza per riflettere sulle angosce ed i vissuti problematici che può attivare uno scenario del genere e per ricorrere, ogni volta che ci si trova in difficoltà, alla coesione di un gruppo al quale ancorarsi: il soccorritore infatti ha bisogno di appoggiarsi al proprio ambiente affettivo, in questo caso il gruppo di appartenenza, per conservare il suo equilibrio psichico.

PSICOLOGI FACENTI PARTE DI UN GRUPPO. Questi momenti di dialogo tra operatori e soprattutto tra noi volontari di Psicar, mi sono sembrati importantissimi perché oltre a mettere ordine nelle cose da fare sono utilissimi a mettere ordine nei vissuti che ci suscita l’intervento: far riferimento al gruppo cui si appartiene aiuta noi operatori a non sentirci soli, ma a sentirci protetti da un’associazione alle spalle. Sapere di non essere soli, ma di essere supportati da altre persone ci aiuta a sentire meno stress perché ci si sente meno soli e parte di un gruppo su cui far riferimento, per non parlare dell’importanza dell’analisi dei controtransfert che in un contesto del genere non possono essere vissuti se non nella dimensione gruppale.
I giorni a San Vittorino terminano e, mentre salgo in macchina per tornare a casa, la mia sensazione di aver avuto poco tempo si trasforma in una sensazione di serenità rispetto a questo vissuto. Oggi ho davvero capito a cosa servono le turnazioni e quanto sia importante non stare troppo sul teatro della tragedia: il rischio di sovraccaricarsi di cose da fare e di vissuti è alto. Ora che sto seduta in macchina sento che ho fatto tutto quel che potevo e dovevo nel rispetto della mia persona e dei miei limiti e che forse tutta la formazione personale (anche se avrò moltissimo ancora da approfondire) sia servita proprio a questo: operare nel massimo dell’efficienza senza correre il rischio di andare in burnout.




 
 
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