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C.I.P. n. 4 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE
L’incidente automobilistico di Fiumicino
Riflessioni di una psicologa dell’emergenza
Patrizia Faudella
(Psicologa dell’emergenze PSIC-AR, Centro Alfredo Rampi)
Vorrei fare alcune brevi considerazioni rispetto agli interventi psicologici messi in atto nel grave incidente automobilistico avvenuto a Fiumicino, il 26 febbraio.
Prima di tutto vorrei mettere in evidenza che è difficile e complesso intervenire, dal punto di vista psicologico, in una situazione così devastante, soprattutto se nel luogo del disastro non si trova qualcuno che coordini coloro che intervengono. Infatti, appena giunta sul posto, ho cercato subito un punto di riferimento per poter essere a disposizione, nel miglior modo possibile, delle persone che si trovavano in situazione di grave disagio psicologico; ma, purtroppo, il nostro coordinatore aveva lasciato la postazione per accompagnare in ospedale un ferito e, quindi, non siamo riuscite subito a conoscere l’oggettività dei fatti accaduti.
Mi sono trovata, con la altre due colleghe psicologhe del Centro Alfredo Rampi, in un caos di interventi, tutti volti a buon fine, ma non coordinati. Si accorreva là dove c’era bisogno, dove intuitivamente si capiva che c’erano pericoli e bisogni fisici o psichici da risolvere e, ognuna di noi tre, cercava di mettere al corrente le altre sulla situazione interpersonale che aveva affrontato e sul tipo di intervento che aveva fatto.
C’erano tanti e piccoli focolai di dispersione umana in quella strada e cinque corpi (tre ragazzi e due adulti) si trovavano in fila lungo la strada, accanto al fossato, coperti da stoffe di recupero di variopinti colori. Corpi che erano fonte di continue esplosioni di dolore da parte dei familiari e delle persone amiche.
E noi correvamo là dove c’era più bisogno, dove il buon senso ci diceva che saremmo state utili.
Mentre cercavo di portare soccorso al parente che aveva perso la sorella o allo straniero che aveva visto stroncate la vita della moglie e di due figlie, restando solo e lontano dal suo paese, mi tornava in mente come un flash la simulata di un incidente automobilistico che facemmo all’Università di Tor Vergata e sentivo che essa era ben diversa da quel vissuto: il lavoro fatto con me stessa in quella esercitazione mi sembrava nello stesso tempo inutile e utile.
Infatti, nella simulazione che avevamo fatto, tutto sembrava scorrere liscio: lì noi non eravamo andati sul luogo del disastro, stavamo in seconda linea, tutto era più asettico, c’era il punto di primo soccorso, il campo medico, un coordinatore, gli stessi psicologi avevano un capogruppo che dava istruzioni e suddivideva coloro che erano da soccorrere secondo i sintomi che presentavano, con interventi psicologici sia di gruppo che individuali.
Ma è anche vero che, in quella simulata, ho assimilato, quasi senza accorgermene, diverse modalità positive di intervento, quali: 1) avere un tipo di intuizione e di controllo a 360°; 2) non sottovalutare nessun sintomo poiché esso poteva essere portatore di ben più gravi disagi psicologici sommersi; 3) assumere un atteggiamento di ascolto profondo e accogliente rassicurava le persone colte da ansia; 4) assumere un atteggiamento rassicurante che non sottovalutasse o minimizzasse la sofferenza psicologica dell’altro, con frasi tipo "non si preoccupi" "non è successo niente"…; 5) mettere in atto i tre gradi dell’ascolto: Ascoltarsi, cioè imparare a sapere ascoltare se stessi, Ascoltare, cioè riuscire a raggiungere un ascolto vero dell’altro, senza fare troppe domande, senza fretta di rispondere ed, infine, Farsi Ascoltare, cioè usare un approccio relazionale basato sull’essere presenti con discrezione e con poche parole di sostegno.
Questo bagaglio di formazione mi è servito in questa dolorosa esperienza anche quando, ad esempio, le forze dell’ordine mi hanno chiesto se potevo aiutarli a restituire al padre i resti (zaino, giacche ecc.) delle due ragazze morte.
È stata un’emozione indescrivibile, che non avevo mai provato, quando ho tirato fuori gli oggetti delle ragazze dalla busta e il papà si è inginocchiato in terra e li ha afferrati e abbracciati come fossero le proprie figlie, chiamandole per nome.
Lì, in quella situazione, si poteva restare solo in silenzio, rispettando e condividendo la pena dell’altro essere umano.
Un’altra riflessione importante che ho fatto, dopo aver vissuto questa esperienza, è legata alla necessità di mettere in moto un sostegno psicologico dopo l’emergenza, che si occupi dei familiari colpiti da tali eventi dolorosi, e che permetta di andare via affidandoli a personale specializzato (psicologi, assistenti sociali) delle istituzioni.
È infatti "nel dopo" che le persone sono più fragili, smarrite e impaurite e facilmente preda della solitudine, della rabbia, del ricordo e della depressione.
Per finire, vorrei fare un’ultima considerazione: credo che psicologi dell’emergenza si nasca, non si diventi, in quanto bisogna possedere, proprio come doti personali, coraggio, presenza di spirito e capacità di sopportare la vista di situazioni spesso cruente. L’intervento psicologico in emergenza non potrà mai connotarsi come una psicoterapia, ma come un insostituibile approccio qualificato, da persona a persona. Come dice Serena Cugini (psicologa dell'emergenza dell’Associazione Psicologi per i Popoli) "l’ascolto profondo, l’empatia, la presenza positiva, la condivisione ed il rispetto delle persone e della comunità, saranno gli strumenti principali ed immediati con i quali porsi davanti allo smarrimento, alla sofferenza, alle paure di chi subisce un grave danno umano e psicologico".