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C.I.P. n. 12 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE
TERRORISMO
ASPETTI PSICOLOGICI
Rita Di Iorio
Presidente PSIC-AR (Psicologi dell’emergenza Alfredo Rampi)
Dopo l’11 settembre 2001 la minaccia del terrorismo ha reso tutti più ansiosi, aumentando
la paura nei confronti dell’altro in quanto diverso da noi e possibile aggressore, e ha
inasprito le norme di sicurezza. Colpita la nazione occidentale più potente del mondo, gli
Stati Uniti d’America, tutte le altre nazioni occidentali si sono sentite più indifese e
vulnerabili.
La caratteristica principale di un attacco terroristico è quella di infondere paura. La paura
costituisce l’arma più potente usata dai terroristi, in quanto resta sempre attiva, anche se
nel tempo in forma più leggera.
Appena un qualsiasi Paese viene scosso da un evento terroristico l’onda del terrore si
ripercuote su ogni altro Paese. Il terrore è un'arma non esclusiva del terrorismo, ma è
propria anche delle guerre e dei genocidi. L'orrore deriva da una percezione sensoriale,
visiva; il terrore deriva dalla mente (Des Pres, 1976) per cui il trauma legato a questa
classe di eventi è difficilmente elaborabile.
Il terrorismo è quasi sempre legato a ideologie politiche o religiose estremiste che armano
la mano dell'uomo.
Esso per definizione:
colpisce obiettivi civili;
è una forma di guerra particolare;
viene messo in atto da piccoli gruppi relativamente deboli che combattono contro un nemico forte;
colpisce con un'arma potente e poco costosa: il terrore (Usuelli, 2008).
È INEVITABILE DOMANDARSI: "PERCHÈ IL TERRORISMO?"
L'incomprensibilità della causa dell'evento terroristico, dovuta all'azione malevola di altri esseri umani, provoca nelle vittime un dolore inaccettabile mentalmente, una
sofferenza inconsolabile, un profondo sentimento di umiliazione e vergogna (Varvin,
2003).
Tutti gli eventi critici provocati dall'azione dell'uomo volontariamente e con determinazione
sono i più difficili da raccontare e da elaborare; rappresentano azioni attuate proprio lo scopo specifico di provocare dolore e sofferenza in altri esseri umani. Sono azioni percepite come effetto di una crudeltà disumana, non riconducibile al conosciuto e quindi difficilmente narrabile.
Il terrorista disumanizza i suoi simili per colpirli brutalmente. Per il terrorista, infatti, le
vittime non hanno volto, età, nome; sono pezzi, cose, oggetti da sterminare
completamente, senza permettere loro alcuna discendenza. Per questi motivi il terrorista
rappresenta un individuo che non può essere capito e giustificato e questo toglie alla
vittima un appiglio per elaborare il proprio dolore.
Dopo un evento terroristico bisogna lavorare sugli effetti del trauma dal punto di vista
individuale e sulla comunità colpita: l'individuo dovrà essere aiutato a superare
l'impotenza, piangere le vittime, riprendere il controllo della propria vita, mentre il gruppo
dovrà essere aiutato a contrastare la frammentazione, a ricostruire la coesione, la
leadership e il sostegno all'interno del gruppo (ibidem).
Volkan (2003) suddivide le risposte ad un evento terroristico in due categorie:
la modificazione o l'inizio di processi socio-politici condivisi;
la trasmissione trans generazionale.
In un disastro di grosse proporzioni è un grande numero di persone, a volte un popolo
intero, ad essere danneggiato; questo danno consiste nella perdita della fiducia di base e
della speranza di recupero.
COSA BISOGNA FARE?
Per prima cosa cercare di capire immediatamente la portata della ferita al tessuto sociale
e da lì partire per raggiungere un contenimento collettivo della comunità colpita capace di fronteggiare le spinte regressive inibitrici di qualsiasi possibilità di recupero.
Bisogna dunque lavorare per ridare ai sopravvissuti la possibilità di ripristinare la quotidianità, insieme alla condivisione collettiva dei valori, degli usi e delle caratteristiche specifiche dalla comunità di appartenenza.
È necessario lavorare sulla capacità della comunità di assimilare e metabolizzare i danni che l'evento catastrofico porta in sé, per collocare l'evento in un setting culturale, sociale e antropologico in grado di generare la risposta più adeguata (Lavanco e Novara, 2003).
LA TRASMISSIONE TRANS GENERAZIONALE DEL TRAUMA
Si verifica che gruppi colpiti da grandi eventi di origine terroristica o da conflitti bellici
cadono in apatia, vengono invasi dallo scoramento, dall'impotenza, dalla vergogna e da
sentimenti terrifici che cercano spesso di esorcizzare con riti magici o con l'affidarsi
passivamente ad un dio-destino.
La rabbia, il dolore, l'odio per il nemico, l'umiliazione, quando non producono una reazione
immediata altrettanto violenta vengono dissociate e spostate. Può accadere, infatti, che
questi sentimenti vengano proiettati sui discendenti attraverso forme di ereditarietà
psicologica. Saranno i figli o i nipoti ad agirli attraverso sintomi di grave disadattamento di massa, o attraverso azioni di vendetta contro i nemici: i figli diventano così i depositari del trauma genitoriale.
Ci si trova di fronte a centinaia, a volte migliaia, di persone che depositano sui discendenti
le loro immagini traumatizzate influenzando l'identità del gruppo per generazioni. Spesso i
discendenti hanno il compito di tenere viva la memoria storica dell'evento per poterla
perpetuare o vendicare quando possibile. Infatti, mentre la prima generazione accusa
principalmente ansia, depressione, anedonia, incapacità a tradurre i propri stati psicologici
in rappresentazioni mentali (dando così origine alle malattie psicosomatiche), la seconda
ha il compito di "dire il trauma" (Mucci, 2008).
La prima generazione viene colpita direttamente dal trauma "reale", la seconda traduce il
trauma della prima in termini fantasmatici: in questo modo agisce l'impossibilità di tradurre
il trauma nella forma sperimentata dalla generazione che l'ha preceduta.
L'aspetto del significato della vita che è stato distrutto diviene centrale nei sopravvissuti e
nelle generazioni future. Le generazioni successive apprendono, respirano, assorbono il
trauma genitoriale, anche se non detto.
COME BISOGNA INTERVENIRE?
Inizialmente è necessario pianificare interventi collettivi a sostegno dell'identità di gruppo,
focalizzando l'attenzione sulle nuove generazioni, per permettere loro l'elaborazione del
trauma e bloccare la loro ulteriore trasmissibilità alle generazioni future.
Come l'individuo che ha subito un trauma non deve essere lasciato solo dopo i primi
soccorsi medici e psicologici, così una comunità non può essere aiutata solo durante l'emergenza, ma deve essere sostenuta nel tempo per permetterle di recuperare una nuova identità sociale. Il gruppo coinvolto da un attacco terroristico dovrà essere particolarmente aiutato a gestire il momento stesso dell’emergenza ricevendo un sostegno sia dal punto di vista psico-sociale che comportamentale.
Tale sostegno può essere fornito durante l’emergenza attraverso un sistema di comunicazione che possa raggiungere tutte le vittime (dirette ed indirette) dell’area coinvolta per sostenerle psicologicamente, informarle sui comportamenti auto protettivi, orientarle verso le vie d’uscita e i centri di accoglienza.
Tale sostegno è opportuno fornirlo fin da subito dopo l’attacco per ridare ai sopravvissuti la possibilità del recupero delle potenzialità interne per reagire in maniera adeguata all’evento distruttivo. Dopo l’evento, si lavorerà sia sulla possibilità delle vittime che sulla capacità della comunità di assimilare e metabolizzare i danni generati dall’evento, collocando in un setting culturale, sociale e antropomorfo, in base alla quale si genera la risposta più adeguata (Lavanco e Novara, 2003).
Una comunità colpita da atti terroristici ha bisogno di:
ricostruire la propria coesione;
attivare il sostegno reciproco tra i componenti più colpiti;
ricostruire la fiducia nei punti di riferimento sociali per uscire dall'isolamento.
Il delicato ruolo dello psicologo consiste nell'aiutare la comunità a dare un significato
emotivo all'evento, senza rimuoverlo, permettendo così la sua ricostruzione.
Parte di questo paragrafo è stato tratto da Di Iorio, Biondo (2009), "Sopravvivere alle Emergenze-Gestire i sentimenti negativi legati alle catastrofi ambientali e civili", Magi Editore, Roma.
BIBLIOGRAFIA
DES PRES T., The survivor: An anatomy of life in death camps, New York, Oxford University Press, 1976.
LAVANCO G., NOVARA C., in Psicologia dei disastri, comunità e globalizzazione della paura, Lavanco G., Milano, Franco Angeli Editore, 2003.
MUCCI C., Il dolore estremo, il trauma da Freud alla Shoah, Roma, Borla, 2008.
USUELLI A., Riflessioni sul terrorismo, Rivista di psicoanalisi, Roma, Borla, 2008.
VARVIN S., (2003), Il trauma e le sue conseguenze, in Violenza o dialogo?, insight psicoanalitico su terrore e terrorismo a cura di Varvin S., Volkan V. D., General editor: Emma Piccoli, Rivista di psicoanalisi – monografie, Roma, Borla, 2006.
VOLKAN V. D., (2003), Società traumatizzate, in Violenza o dialogo?, insight psicoanalitico su terrore e terrorismo a cura di Varvin S., Volkan V. D., General editor: Emma Piccoli, Rivista di psicoanalisi – monografie, Roma, Borla, 2006.