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C.I.P. n. 19 - PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE
EMERGENZE E GRUPPO DI LAVORO
L’ADOLESCENZA COME EMERGENZA E FRAMMENTI DI UN’ESPERIENZA CLINICA IN EMERGENZA
Silvana Palmisano
Psicologa, Psicoterapeuta Unità Operativa Complessa di Psicologia ASP Palermo
1 - Introduzione
Questo intervento si basa su due spunti concettuali: il primo riguarda la funzione del gruppo di lavoro nelle emergenze ed il secondo riguarda l’idea di leggere l’adolescenza come una emergenza.
L’esperienza di lavoro istituzionale degli ultimi dieci anni, ha segnato profondamente il mio modo di lavorare. Tutto ciò che qui, di seguito, sarà detto, è strettamente connesso a questa corposa esperienza professionale e umana nell’ambito dell’abuso e maltrattamento infantile. Pertanto, pur non parlando di abuso e maltrattamento, ma di altre situazioni di emergenza, ho nella mente, sempre, quel patrimonio di esperienza. Quell’esperienza mi ha insegnato quanto sia assolutamente indispensabile l’esistenza di una rete interistituzionale che realizzi l’integrazione reale delle parti a vario titolo coinvolte, così come è indispensabile che le stesse strutturino un rapporto alla pari, anche rispetto all’assunzione di responsabilità.
Non si può affrontare un’emergenza, di qualunque natura, senza gruppo di lavoro e il gruppo di lavoro ha bisogno, alle spalle, di una rete interistituzionale nei termini sopra detti. Ritengo che i Servizi non possano mettersi realmente ed efficacemente in rete senza che ciò sia avvenuto al livello interistituzionale. Le istituzioni rendono concreta la rete attraverso la costituzione di gruppi operativi, "gruppi di lavoro al lavoro", che si fondano nell’operatività supportata da un pensiero comune e da una pensabilità sempre attiva e trasformativa. Il gruppo deve preesistere all’emergenza, non nascere nell’emergenza, in quanto ciò è la premessa indispensabile perché resista alla violenza improvvisa delle emergenze e possa essere preservata la "capacità di pensare". Una caratteristica delle catastrofi, individuali e/o collettive, è che la sua enorme ed improvvisa violenza attacca la capacità di pensiero di chi vi è coinvolto a qualunque titolo: vittima, spettatore, soccorritore; quest’ultimo, per poter svolgere la propria funzione, deve difendere la propria capacità di pensiero ed il gruppo operativo è il contenitore indispensabile perché ciò possa realizzarsi.
La prospettiva di lettura dell’adolescenza come emergenza è, a mio avviso, utile per affrontare sia le criticità naturali dei percorsi evolutivi dell’adolescente, sia per quelle situazioni in cui il "caso" o l’assenza di mediazione del pensiero, porta l’adolescente in situazioni di catastrofe che mettono a repentaglio la sua integrità fisica e psichica.
Presenterò degli spunti di riflessione sul difficile percorso di crescita degli adolescenti nel tentativo di comprendere quali possano esseri alcuni dei modi attraverso cui fare fronte all’"emergenza adolescenza" che coinvolge gli adulti, la famiglia, la scuola e che solo attraverso l’integrazione delle agenzie educative e di cura può essere affrontata. Di seguito porterò frammenti di un’esperienza di lavoro istituzionale in uno specifico ambito di emergenza, per provare a descrivere la "funzione protettiva" del gruppo di lavoro non solo rispetto alle vittime ma di tutti coloro che, a vario titolo, si trovano nell’emergenza.
2 – Emergenza e Adolescenza
Definizione di Tullio De Mauro (Grande Dizionario Italino dell’Uso) del termine "Emergenza":
improvvisa difficoltà, situazione che impone di intervenire rapidamente;
l’emergere e il suo risultato, sporgenza;
contrario dell’emergere è nascondersi.
Leggendo questa semplice ed essenziale definizione del termine emergenza, il pensiero si sposta con rapidità all’adolescenza. Se il risultato dell’emergere è una sporgenza, proviamo a pensare a tutte le sporgenze che si moltiplicano nel corpo degli adolescenti e che, con inutile fatica, tentano di nascondere. Proviamo a ricordare la forza delle nostre adolescenti turbolenze pulsionali (emergenze interne). Il risultato di tutte queste sporgenze (interne ed esterne) è una situazione di pluri-emergenza, innumerevoli difficoltà improvvise che i ragazzi devono imparare a fronteggiare. Inevitabili sono le domande: "chi sono?"; "sto perdendo tutto?"; "dove sto andando?".
L’adolescente non è più in grado di godere della protezione dell’adulto ed il rapporto con la realtà non ha più mediazione. In questa condizione deve raccogliere tutta la sua turbolenza pulsionale ed emozionale, riconoscerla; costruire la sua storia personale e darle un senso; risignificare gli eventi esterni; scrivere e rappresentare la sua vita riportandola all’interno di un ordine temporale reale. In sintesi, deve confrontarsi con il limite, l’impotenza, col destino impersonale e la legge inesorabile della morte.
Il pensiero va a tutti quegli adolescenti che "fermano il tempo", a quelli che dopo una carriera scolastica brillante "si fermano" alla vigilia della maturità, a quelli che per anni soggiornano all’università, a quelli che si nascondono dietro lo schermo di un computer e stanno ore ad apparire senza mai farsi conoscere né mettere in mostra le proprie "sporgenze". Infine il pensiero va a tutti gli agiti adolescenziali la cui violenza determina una situazione di emergenza visibile, finalmente, a tutti.
Ricordo di avere letto, molti anni fa, "I Dolori del giovane Werter" di Goethe; ricordo la cura con cui Werter si veste per andare a morire: un frac azzurro con il gilet giallo. Avevo quindici anni e piansi tanto. Ricordo che parlai della mia lettura con un insegnante e quella discussione colta (cultura come conoscenza) trasformò la lettura emotiva dell’adolescente quale ero: avevo letto quel suicidio come trionfo dell’Io sul destino avverso. In quell’occasione il "libro preteso" era stato utilizzato da un insegnante attento, pronto a cogliere i segnali di un’emergenza.
La funzione educativa esercitata dalla famiglia e dalla scuola è uno strumento prezioso per sostenere i nostri ragazzi nell’affrontare le loro emergenze. Questa funzione può essere esercitata in modi e contesti diversi: attraverso il modo adulto di stare nel mondo, con l’accettazione del limite e dell’impotenza; attraverso uno spazio di ascolto offerto ad esempio da un "libro pretesto" o, drammaticamente, nell’occasione, che mai vorremmo si presentasse, di un agito inatteso e violento. In questo caso attraverso l’incontro con l’adolescente l’evento dovrà essere trasformato, risignificato in qualcosa da cui sia possibile "ripartire" e "proseguire". Qualunque sia il contesto l’adulto deve dare prova di sostenere il confronto con i propri limiti e con la propria impotenza, come solo modo per indicare all’adolescente una via per la costruzione del Sé e della sua storia personale.
3 - Ripensando a Luisa.
Ciò che segue è l’insieme di alcuni frammenti di un’esperienza di lavoro istituzionale nell’ambito dell’emergenza. Descrive come il lavoro di altri colleghi mi ha permesso di concentrare tutte le mie energie per affrontare una emergenza di dolore improvviso e devastante, reso possibile il mio personale intervento clinico. Si tratta di un lavoro nei confronti di una piccola bambina di 5 anni che chiameremo Luisa.
Sono a casa, fuori piove, fa freddo. A casa si sta bene, il forno in cucina è acceso, è la fine di una tranquilla giornata di lavoro. Sono le ore 20’00. Squilla il telefono: "un uomo ha ucciso la moglie, poi si è ucciso, la figlia di 5 anni era in casa. Altra telefonata: Vieni, abbiamo bisogno di te. Esco da casa con quello che trovo: colori, fogli, qualche pupazzetto; metto tutto dentro un sacchetto del supermercato e vado. Fuori fa proprio freddo! Arrivo al domicilio dove altri colleghi mi avevano preceduta e che avevano già "parato il primo colpo". Chi mi aveva preceduta aveva già preso contatti con la tragedia e me la consegnava un po’ più leggera. C’è tanta gente ma c’è silenzio. Incontro la bambina è in una stanza soggiorno, a un tavolo, una mia collega la intrattiene.
Da quel momento la mia attenzione è massima. Cerco di incontrare Luisa, nonostante tutto ciò che avevo intorno, che vedevo e che non vedevo, fosse particolarmente invadente. Ma tutto questo esterno era nelle mani di altri colleghi che mi permettevano di delimitare un’ aria di relazione nella ricerca di un dolore.
Di quel primo incontro ricordo: Luisa, una bambina che gioca sulle mie gambe come se niente fosse successo e un disegno ripetuto su più fogli, cinque cuori uno appresso all’altro.
Quella sera avvengono molte cose: incontro con l’operatore del118; incontro con il PM circa l’affidamento serale della bambina; incontri con alcuni parenti. Molte decisioni da prendere, un dolore da provare e una realtà da guardare.
E’ stata raccontata una bugia: mamma e papa si sono fatti male, sono in ospedale, saranno dimessi tra un mese. E mercoledì, i funerali saranno il sabato.
La bambina conosce la verità e c’è un tentativo da parte degli adulti di non consentirle di essere toccata dal disastro e questo perché gli adulti sono loro nell’impossibilità di contattare il dolore.
Nell’incontro del pomeriggio successivo, in un assetto poco ortodosso per un operatore che ha le sue certezze dentro la stanza di un ambulatorio, costruisco un’intimità di relazione che mi permette, ci permette, di incontrare l’orrore, provare paura e accogliere la morte. Tutto ciò sarà reso possibile dalla presenza di altri colleghi, che in altri contesti avrei sentito come disturbanti e intrusivi. In quel contesto contribuivano a creare un setting clinico con la loro silenziosa e attenta presenza che rappresentava un robusto contenitore dentro il quale poteva emergere l’orrore.
Mi ritrovo nel soggiorno attorno ad un tavolo rotondo con altri due colleghi; io sono seduta di fronte a Luisa, intenta a fare lo stesso disegno della sera precedente. Guardo il disegno e mi ripeto: "cosa significano i cinque cuori?"; "perché questi cinque cuori?". Il tentativo di comprendere il disegno non mi porta da nessuna parte e cerco di entrare in contatto con Luisa attraverso altri mezzi per interrompere una ripetizione che mi appariva senza significato. Mi sposto e mi siedo vicino a lei, in mezzo ai due altri colleghi. Le propongo di disegnare una famiglia e lei mi racconta una storia. La mia attenzione aumenta insieme alla temperatura emotiva della relazione. Si restringe il campo della relazione sempre di più, siamo più vicine. Mi alzo e mi siedo accanto a lei. Percepisco sempre meno gli altri intorno a me anche se ne sento il contenimento. Disegna una famiglia e mi racconta una storia dio una mamma ed un papà felici con una figlia; la figlia un giorno esce e si perde, poi viene ritrovata e la mamma si arrabbia con lei perché l’ha fatta spaventare. Le parlo della paura della mamma di perdere la sua bambina e della sua paura della sera precedente senza alcun riferimento agli avvenimenti. L’emozione è alta e il silenzio quasi irreale. Luisa dice: "… la mamma è morta, la mamma è morta, papà è morto". Si alza di scatto, si allontana dicendo "ora basta! giochiamo" ed esce dalla stanza.
A questo seguono altri quattro incontri in cui Luisa entra ed esce continuamente dalla realtà (mamma è morta!/non è vero!). Nell’ultimo incontro vuole che sia presente un amico di papà che possa dire "la verità definitiva". Sarà lei a ricostruire con dei pupazzi quanto avvenuto mentre io descrivo e lei conferma. Introduco il funerale e comincia a fare domande sul cimitero, su dove metteranno la mamma, chiede una descrizione della bara dice che vuole accompagnare la mamma al cimitero.
4 - Conclusione
Emergenza = Improvvisa difficoltà = fatto tragico imprevisto e imprevedibile = TRAGEDIA
La tragedia destruttura tutti i modi consueti di affrontare l’esistenza ed è così imprevista e drammatica da rendere insufficienti i nostri modi consolidati di difenderci dalle difficoltà ordinarie.
Questo riguarda non solo le vittime, ma anche coloro che a diverso titolo sono a stretto contatto con le stesse, anche gli operatori coinvolti.
L’intervento in emergenza necessità di un contesto (di gruppo, istituzionale) che protegge l’operatore dalla violenza dei fatti e delle emozioni che altrimenti paralizza ed impedisce qualunque operatività.
La violenza delle catastrofi, individuali e/o collettive, destruttura la/le vittima/e e l’onda d’urto travolge spesso tutti i territori limitrofi. Una reazione consueta di natura protettiva è, ad esempio, quella di negare la realtà degli eventi, di negare la morte di qualcuno. Chi interviene per esercitare una funzione di aiuto deve essere protetto dall’onda d’urto per poter accogliere pensieri ed emozioni della vittima. Per riuscire in questo compito la preparazione personale è indispensabile, ma può non bastare: per sostenere l’impatto della tragedia, dell’orrore la rete che mette insieme tutte le istituzioni coinvolte è essenziale per fondare gruppi di lavoro in grado di reggere la forza d’urto che tende a paralizzare il pensiero. Il gruppo operativo come contenitore dell’angoscia della morte e lungo di riattivazione del pensiero paralizzato. L’intervento sopra sintetizzato vuole descrivere un passaggio clinico che senza il contenitore protettivo del gruppo di lavoro non sarebbe stato possibile realizzare.
Anche l’insegnante che si trova a contatto con l’emergenza e la tragedia ha bisogno, non solo di risorse interiori sufficientemente solide, ma di una protezione, non rispetto a responsabilità formali ed oggettive che rimandano ad altri contesti, ma di tipo emotivo affinché non vada in pezzi nell’impatto con la tragedia. Ciò attraverso lo scudo che gli altri pezzi di istituzione coinvolti devono mettere in atto facendosi carico degli altri elementi che circondano la tragedia: i familiari, i colleghi, i compagni, le autorità, i curiosi, i mezzi di informazione. Il grande rischio di chi si trova ad operare in un contesto di emergenza e di restare travolto dall’emotività dei fatti e dal caos che si scatena.
Nell’ordine, da sx, Palmisano, Arcidiacono, Buccola, Saguto.