Intervista a Silvia Peppoloni: “Convivere con i rischi naturali” - Conosco Imparo Prevengo

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Intervista a Silvia Peppoloni: “Convivere con i rischi naturali”

Archivio > Agosto2014 > Recensioni

C.I.P. n. 23 - RECENSIONI
INTERVISTA A SILVIA PEPPOLONI
“CONVIVERE CON I RISCHI NATURALI”
IL MULINO (2014)

di Sonia Topazio                     

Direttore responsabile CIP


  
Chi volesse acquisire in poche ore una rassegna completa dei rischi naturali che incombono sul territorio italiano, può dedicarsi ad una avvincente lettura estiva: "Convivere con i rischi naturali", di Silvia Peppoloni, Il Mulino.
L'autrice, la Dott.ssa Silvia Peppoloni, è ricercatrice dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, e si occupa di pericolosità sismica, geotecnica e geomorfologica finalizzata alla valutazione dei rischi naturali. E’ docente di Geologia per il corso di Dottorato alla Facoltà di Architettura dell’Università “Sapienza”. Ma soprattutto è nota nel mondo geologico per avere fondato una nuova branca delle Scienze della Terra: la Geoetica. Questa disciplina si occupa delle ricadute etiche e sociali della ricerca e della pratica geologica, fornendo principi, linee guida e criteri per un corretto uso degli strumenti della geologia e della geofisica per gestire il territorio.
In questo volume di centoquaranta pagine, che fa parte di una fortunata collana de Il Mulino, dedicata a temi di grande attualità della ricerca scientifica, la Peppoloni descrive puntualmente le ricorrenti emergenze cui è soggetto il nostro territorio e quali siano i rimedi più opportuni per fronteggiarle. Fornisce al lettore le conoscenze di base riguardanti terremoti, eruzioni vulcaniche, frane, tsunami e altri fenomeni naturali, con un linguaggio semplice, comprensibile per il grande pubblico, senza mai perdere di rigore scientifico. E soprattutto l’autrice espone la sua idea di come, attraverso l’informazione ai cittadini, si possa cambiare la nostra mentalità nei confronti di eventi tanto impattanti, passando da una cultura dell’emergenza ad una cultura improntata sulla prevenzione.

Come è nato questo libro? Come mai una scienziato ha sentito la necessità di scrivere un testo di carattere divulgativo?
L’idea di scrivere un libro come questo nasce fondamentalmente da una considerazione: chi possiede delle conoscenze in un determinato settore disciplinare, e soprattutto se questo settore ha ripercussioni sulla vita sociale di una comunità, deve assumersi anche il compito di trasmettere queste sue conoscenze agli altri. E deve farlo consapevole della responsabilità che questo comporta; responsabilità che di fatto nasce dal rispetto che si deve avere per gli altri, per coloro che non sanno, non hanno determinate conoscenze su argomenti, come in questo caso i rischi naturali, che invece li riguardano da vicino. Tutti devono avere accesso alle informazioni su questi fenomeni, informazioni che siano rigorose dal punto di vista scientifico ma allo stesso tempo vengano esposte con un linguaggio comprensibile per il grande pubblico, per gli studenti, per i non addetti ai lavori.
Naturalmente questo pensiero, che da un po’ di anni avevo in testa, ha incontrato una favorevole opportunità  per realizzarsi quando Il Mulino mi ha contattato per propormi di scrivere un libro sui rischi naturali, per una collana che già nella sua denominazione,  "Farsi un’idea", contiene questo obiettivo divulgativo.
Dunque, questo è lo spirito con cui ho scritto questo volume. In definitiva, è un manuale per avvicinarsi ad una comprensione scientifica di fenomeni complessi ma del tutto naturali, che ci coinvolgono direttamente tutti i giorni, più di quello che pensiamo. Ogni capitolo è dedicato ad un fenomeno naturale: terremoti, alluvioni, frane, eruzioni vulcaniche, tsunami, e altri rischi come gli incendi, gli sprofondamenti del sottosuolo, la contaminazione delle acque, i meteoriti, ecc. Ho cercato di parlarne in modo semplice, essenziale, e in qualche caso anche divertente, inserendo qualche curiosità storica o mitologica e qualche aneddoto.
L’impronta che ho dato al libro non è assolutamente catastrofista, perché credo che lo studioso non debba allarmare o rassicurare. Lo studioso deve offrire un servizio sociale onesto, chiaro, razionale, che sia in grado di orientare chi deve prendere le decisioni sul territorio, il nostro territorio, la nostra casa.
L’ho scritto senza voler giudicare o polemizzare, ma cercando di mettere a fuoco i problemi per trovare soluzioni accettabili.

Come è cambiato il rapporto tra uomo e fenomeni naturali? Ci affidiamo al misticismo oppure ci affidiamo alla scienza?
I fenomeni naturali da sempre affascinano l’umanità, anche nei loro aspetti più temibili. Ci ricordano che la Terra è un pianeta vivo, con le sue dinamiche. Tuttavia il rapporto che lega l’uomo ai fenomeni naturali è mutato nel tempo, in funzione dei cambiamenti storici, culturali e sociali che hanno accompagnato lo sviluppo delle nostre società. Ed è molto interessante vedere come da un atteggiamento prevalentemente istintivo, di suggestione e di sottomissione nei confronti degli eventi naturali estremi che portava nell’antichità gli uomini a darne un’interpretazione legata al volere della divinità, si sia passati ad atteggiamenti via via più razionali.
Nella tradizione occidentale è la filosofia greca ad aprire alla conoscenza fisica degli eventi naturali. Epicuro, Platone e Aristotele sostengono che tali eventi non avvengono per intervento divino, ma sono fenomeni fisici e vanno indagati in quanto tali, ricercandone le cause, al fine di dissipare inutili paure irrazionali.
Molti secoli dopo, Leonardo da Vinci invoca la «necessità» quale elemento che governa gli eventi naturali, escludendo dalle cause che li determinano ogni intervento di forze mistiche o spirituali.
Ma è nel 16° secolo che si sviluppa una maggiore consapevolezza: la conoscenza scientifica non solo può liberare dalle paure, ma può fornire appropriati strumenti per difendersi da eventi catastrofici. Nel 1571, a Ferrara, l’architetto Pirro Ligorio, nel Trattato de’ diversi terremoti, afferma che i terremoti non sono accidenti oscuri e ineluttabili, ma fenomeni alla portata della ragione umana: comprenderne le cause e trovare il modo per porre riparo ai danni che essi provocano sono prerogative che rientrano nelle possibilità della nostra razionalità. E sottolinea che cercare di raggiungere la sicurezza abitativa è una necessità e un dovere dell’intelletto umano.
Con il terremoto di Lisbona del 1755, in pieno Illuminismo, si ha un punto di svolta nella concezione delle catastrofi naturali. La tragedia uccide almeno un quarto degli abitanti della città. La comunità intellettuale dell’epoca è profondamente sconvolta; ma è in questa occasione che avviene un passaggio importante: intellettuali come  Rousseau e Kant pongono l’accento sulle colpe dell’uomo, che non ha mantenuto un modo di vivere conforme alle regole della natura e ha costruito città in modo imprevidente e inadeguato. Questi intellettuali, per la prima volta, mettono l’uomo di fronte alle sue responsabilità in materia di disastri ambientali, per aver prodotto le condizioni perché quel disastro si verificasse.
Il secolo successivo Robert Mallet, ingegnere e geologo irlandese, segna il punto di svolta scientifico nel modo di studiare il fenomeno naturale. Prima di lui, lo studio di un terremoto consisteva nella semplice osservazione e nella descrizione dei suoi effetti. In occasione dell’evento sismico che nel 1857 devasta la Val d’Agri (Basilicata), Mallet comincia a quantificare gli effetti che osserva mediante grandezze fisiche: calcola la forza necessaria al crollo di un edificio, studia le direzioni di caduta di mura e oggetti, misura le orientazioni delle fratture del terreno, ritenendole indicatori della traiettoria delle onde sismiche. Alla semplice e consueta descrizione del fenomeno naturale, Mallet sostituisce la misura di parametri fisici. Il fenomeno naturale diventa razionalmente più comprensibile nelle sue variabili apparentemente casuali.
Oggi si sono affinati gli strumenti matematici e le tecniche investigative, ma i principi che guidano l’indagine scientifica sui fenomeni naturali sono gli stessi: osservazione, quantificazione, co di un modello e previsione dell’evoluzione del fenomeno.
Ma oggi qual è l’atteggiamento di noi italiani verso gli eventi calamitosi o i disastri in generale? Bene, a detta del sociologo Franco Ferrarotti, nel nostro paese le scienze, e tra queste le geoscienze, intrattengono il pubblico ma non incidono sulla mentalità prevalente di politici e gente comune. In Italia, secondo Fearrarotti, corriamo il rischio di passare da una mentalità miracolistica e scaramantica, che ancora costruisce case fin sul cratere dei vulcani, fiduciosa che in caso di emergenza qualche santo (o lo Stato) intervenga, a un atteggiamento opposto, che rimanda tutto alla scienza, con la convinzione che essa possa risolvere qualsiasi problema.
Ma se da un lato la scienza ci offre straordinarie possibilità di progresso, dall’altro essa va considerata anche nei suoi limiti. Di questo, era convinta Margherita Hack, la grande astrofisica, che, pur avendo spesso manifestato scetticismo di fronte alla prevedibilità dei fenomeni (sosteneva che «sulla Terra non tutto è prevedibile»), ribadiva che «la scienza può servire anche quando prevede l’assoluta imprevedibilità». Come a dire che la scienza non offre certezze, ma può essere un aiuto efficace.
Un’altra grande scienziata, Maria Curie, affermava che nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire e che capire di più significa avere meno paura. Sottolineando proprio come il processo della conoscenza scientifica e una maggiore fiducia nella scienza possono permetterci di vincere la paura nei confronti delle catastrofi naturali.

E’ possibile difendersi dai rischi ? Che cos’è la prevenzione?
Il rischio purtroppo non è eliminabile, è connaturato alla nostra stessa vita, ma può essere senz’altro mitigato, minimizzato. Il progresso scientifico sta dimostrando che difendersi dai rischi è possibile, con il monitoraggio accurato e continuo dei fenomeni, con adeguati programmi di prevenzione, con un’oculata gestione del territorio, con metodi costruttivi idonei e ben tarati sulle caratteristiche di pericolosità di ogni zona del mondo, con l’educazione e l’informazione ai cittadini.
Tutto questo insieme di attività si definisce prevenzione. La prevenzione ha lo scopo di minimizzare i danni e le vittime. Si attua mediante interventi sull’ambiente (stabilizzazione di frane, consolidamento di terreni liquefacibili o subsidenti, costruzione o miglioramento di argini fluviali, realizzazione di reti paramassi, di rilevati, di canali per la deviazione e l’incanalamento di flussi idrici, ecc.), sul costruito (interventi di miglioramento strutturale dei manufatti per la riduzione della vulnerabilità) ma anche attraverso adeguati programmi di educazione per i cittadini, che informino sui comportamenti che le persone devono mantenere durante le emergenze (campagne informative ed educative). Di particolare importanza è la messa a punto dei piani di emergenza, che rappresentano in Italia, a livello comunale, lo strumento operativo per la pianificazione delle azioni da svolgere in caso di crisi.
La prevenzione è un attività che va portata avanti su piani temporali differenti: a breve termine consisterà in semplici azioni di preannuncio e allertamento; a medio termine nel monitoraggio dei fenomeni, nella redazione dei piani di emergenza e nella realizzazione di opere di difesa del suolo; a lungo termine si agirà sui fattori urbanistici e territoriali che condizionano direttamente la vulnerabilità dei contesti ambientali, sviluppando politiche di protezione del territorio e di educazione ai cittadini. Si finanzieranno studi scientifici per migliorare le conoscenze sui fenomeni, verranno emanate normative per la programmazione territoriale e per la progettazione di costruzioni più sicure. La prevenzione è l’insieme di tutte queste attività, condotte ovviamente in tempo di pace, durante l’intervallo di tempo che precede l’evento.

Nel suo libro lei parla spesso di percezione del rischio e di cultura del rischio. Secondo lei, cosa manca in Italia a questo proposito?
Per rispondere bisogna fare alcune considerazioni. Negli ultimi anni si è progressivamente determinato un forte incremento dei livelli di rischio proprio a causa dell’ampliamento degli elementi esposti (ovvero persone, cose, attività). Questo per varie ragioni: l’espansione delle città, l’aumento del consumo di suolo e delle attività produttive.
Tuttavia, a questo incremento del rischio non è corrisposto un aumento della nostra percezione del rischio. Quanti di noi sono consapevoli di vivere in un territorio soggetto a fenomeni naturali di una certa gravità, che possono assumere intensità tali da costituire un reale pericolo per la nostra incolumità? Quanti cittadini hanno un’idea del grado di vulnerabilità della propria abitazione, o almeno sono a conoscenza dei luoghi più sicuri della propria casa, dove cercare riparo in caso di terremoto? Perché, nonostante le prescrizioni normative e le immagini drammatiche che giungono da tutto il mondo, si continua a costruire nelle zone di esondazione di fiumi e torrenti o fin sul cratere di vulcani attivi?
Durante gli ultimi episodi disastrosi che si sono verificati in Italia, mi riferisco alle alluvioni primaverili nel centro del Paese, abbiamo appreso di persone che hanno perso la vita per scendere in cantina a salvare le bottiglie di vino, o che si sono avventurate in un sottopasso già in parte ostruito dall’acqua. Episodi come questi mi fanno pensare che la gente sia poco informata e che non abbia una reale percezione del pericolo che corre. Per questo, nel libro io ribadisco che non esiste in Italia una cultura del rischio, né la piena consapevolezza della fragilità e del valore del nostro territorio. Al momento il sapere sociale di cui siamo provvisti non comprende le opportune conoscenze di base sui fenomeni naturali che possono venirci in aiuto in una situazione di emergenza. Se abbiamo la febbre, sappiamo più o meno come comportarci, abbiamo quelle conoscenze minime che ci permettono di non morire. Non avviene altrettanto nell’ambito dei rischi.

Come è possibile migliorare il rapporto tra cittadini, politici scienziati, amministratori, tecnici locali?
Sicuramente, per una efficace mitigazione dei rischi naturali è necessario il coinvolgimento di tutte le diverse componenti della società interessate dall’evento disastroso: cittadini, amministratori locali, tecnici, scienziati, legislatori, politici, mass media. E perché tutto funzioni al meglio è necessario che ogni attore coinvolto abbia piena consapevolezza delle sue responsabilità.
Gli scienziati devono migliorare la loro capacità di comunicare, acquisendo maggiore credibilità tra la popolazione, consapevoli del ruolo sociale, culturale ed etico della loro professione. Devono usare linguaggi più semplici e avere una maggiore sobrietà nei giudizi. Devono ad esempio imparare a comunicare anche il grado di incertezza che accompagna i loro studi.
I politici sono tenuti ad attivare azioni di governo per la tutela e la valorizzazione del territorio e strumenti normativi che garantiscano il rispetto di adeguati livelli di sicurezza.
I mass media devono porre maggiore attenzione alla qualità delle informazioni che raccolgono e diffondono, avendo cura che siano scientificamente attendibili. I giornalisti scientifici devono prepararsi di più, devono evitare di perseguire il sensazionalismo, lo scoop, specialmente su argomenti così delicati. Sono proprio loro il collegamento tra popolazione e comunità politica e scientifica. Quando parlano di prevenzione, devono essere capaci di comunicare quanto sia stato importante raggiungere un risultato positivo a tal riguardo. Se alcuni mesi fa, a Pisa, l’Arno non ha straripato, è anche per effetto degli interventi effettuati lungo l’alveo negli anni passati. Il valore della prevenzione è importante e va messo in risalto agli occhi della gente: è un risultato che abbiamo conseguito con i soldi di tutti.
E infine ci sono i cittadini.

Qual è il ruolo del cittadino in uno scenario di rischio?
Il cittadino viene considerato spesso un soggetto passivo nell’ambito della difesa dai rischi, mentre invece può e forse deve avere un ruolo attivo. La difesa dai rischi passa anche attraverso la nostra responsabilità individuale. Da un lato come cittadini abbiamo il diritto di pretendere che lo Stato agisca in maniera preventiva, salvaguardando persone e cose, dall’altro abbiamo il dovere di informarci e di comprendere che investire sulla propria sicurezza, ad esempio prediligendo abitazioni che possiedano adeguati requisiti di resistenza, è il primo passo per tutelarsi.
Io penso che se i cittadini saranno più consapevoli del valore della scienza, della prevenzione e degli strumenti tecnici a disposizione oggi per difendersi dai rischi, saranno anche in grado di valutare, orientare ed eventualmente correggere l’operato dei politici. Saranno delle sentinelle del territorio.

Da dove bisogna partire per un cambiamento radicale nel modo di convivere con i rischi naturali? Quanto è importante l’informazione?
A mio avviso, affrontare in maniera efficace la sfida della mitigazione dei rischi comporta un’azione decisa sul piano culturale, un cambiamento di mentalità che ci porti a riscoprire il valore del territorio che abitiamo.
Il territorio è il supporto fisico delle attività umane, uno degli elementi fondativi della nostra identità individuale e sociale. In quanto tale, esso andrebbe considerato un bene comune, da condividere e salvaguardare. Informarsi sulle caratteristiche del nostro territorio, sulle sue vulnerabilità, può essere un primo passo per conoscere i rischi naturali cui siamo esposti, prenderne maggiore consapevolezza e affrontare più serenamente le nostre paure, comprendendo che il rischio non è eliminabile, ma difendersi è possibile.
Il dissesto geologico e dissesto sociale nel nostro paese sono intimamente legati. Entrambi sottolineano una disattenzione collettiva verso il territorio. Da parte di tutti: non solo dei politici, ma anche di noi cittadini, un po’ troppo abituati a delegare.  

Nel suo libro lei dedica un paragrafo alla tragedia dell’Aquila. Vorrei concludere questa intervista leggendone un breve passo:

“La vicenda dell’Aquila, questa triste pagina della nostra storia, rimarrà impressa nella memoria per le vittime, l’incalcolabile perdita subita dal nostro patrimonio storico-artistico e per la sentenza di condanna a carico di alcuni membri della Commissione grandi rischi, l’organo di consulenza scientifica del DPC.
Un terremoto distruttivo lascia una profonda ferita nel tessuto sociale di una comunità, una perdita di identità storica e culturale nella popolazione, che non si riconosce più nei consueti luoghi di vita comune”.

Proprio eventi tragici come quello dell’Aquila indicano che è forse necessario nel nostro paese un cambiamento culturale, che porti tutti, scienziati, politici, tecnici, cittadini, a considerare il proprio territorio non semplicemente come il luogo in cui per caso siamo nati o viviamo, ma come valore fondante della nostra identità, preziosa risorsa culturale, scientifica, educativa ed economica, da tutelare e valorizzare.

Ringrazio l’autrice e auguro una buona lettura a tutti.


 
 
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