Vittime di un incidente stradale o vittime di uno psicologo dell’emergenza? - Conosco Imparo Prevengo

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Vittime di un incidente stradale o vittime di uno psicologo dell’emergenza?

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C.I.P. n. 3 - ESERCITAZIONI

VITTIME DI UN INCIDENTE STRADALE O VITTIME DI UNO PSICOLOGO DELL’EMERGENZA?
Simulare il ruolo della vittima per sfatare i miti, scoprire errori e rinnovare l’intervento psicologico nell’emergenza
Ilaria Ripi, Vania Venanzi
(Psicologhe di PSIC-AR)

Nel weekend 12-13-14 ottobre 2007 si è svolto a Marco di Rovereto il II campo scuola nazionale degli psicologi dell'emergenza, organizzato da "Psicologi per i Popoli", associazione che da anni si occupa di interventi psicologici durante le emergenze.Tutta la manifestazione ha visto la partecipazione attiva della Dott.ssa Volpini dirigente del Dipartimento della Protezione Civile, dei membri della CRI di Trento, dei dirigenti degli Enti della Provicia di Trento.
L'iniziativa, nata lo scorso anno, si è ripetuta con sempre crescente successo dal punto di vista dell’interesse e della partecipazione: più di trecento persone (per lo più psicologi, ma non mancavano altre professionalità), provenienti da tutta Italia.
La manifestazione si propone come un punto d’incontro nel quale scambiare le esperienze e confrontare i metodi di intervento nei vari ambiti dell'emergenza. Questo scambio di esperienze e competenze, volto al miglioramento delle prestazioni in ambito del soccorso, si pone lo scopo di creare e mettere a punto procedure d’intervento più uniformi che, tenendo conto ovviamente delle specificità regionali e dei diversi ambiti applicativi delle singole associazioni di psicologia dell'emergenza, siano trasversalmente condivise ed applicabili.
In una parola: cercare di fare in modo che si possa sempre di più parlare di un "gruppo nazionale" di psicologi dell'emergenza.
Questo intento porta con sé pricipalmente due aspetti: la necessità di organizzare l'evento in modo tale da poter avere una reale circolazione dei contenuti di cui le diverse associazioni si occupano e la necessità di creare un impianto organizzativo complessivo teso il più possibile a creare gruppo intorno ad un obiettivo comune.
Entrambi gli scopi a nostro avviso sono stati raggiunti, il primo attraverso i laboratori e la loro organizzazione che ha favorito lo scambio di competenze tra diverse professionalità, sia all’interno del laboratorio stesso, sia tra i membri delle singole associazioni, sia tra le varie associazioni presenti; il secondo attraverso la partecipazione alla simulazione. Parliamo di questa come dell'evento centrale in quanto è ciò che permette di sperimentare e mettere a punto ciò che viene imparato a livello teorico.
Il Centro Alfredo Rampi onlus e Psic-ar hanno partecipato al campo scuola con 8 membri, tutti psicologi, ed alla simulazione con 6 degli stessi, in diversi ruoli: Rita Di Iorio ha coordinato il Centro di Prima Accoglienza Psicologica, Chiara Budini, Gabriella Mosca, Roberta Palombelli, Luana Proietti, Ilaria Ripi e Vania Venanzi, hanno ricoperto il ruolo di vittime e spettatori dell'incidente.
Nessuno strumento è tanto prezioso quanto la prova delle tecniche e dei metodi di intervento direttamente sul campo, seppure in un contesto protetto e in una condizione di finzione.
Può sembrare insolito contare su di una messa in scena come banco di prova delle proprie competenze nell'intervento in emergenza, dal momento che un'emergenza, proprio in quanto tale, sembra avere poco o nulla a che fare con la preparazione, l'organizzazione, e ancora meno con la finzione; eppure, se si partecipa ad una simulazione di questo tipo, ci si rende conto di quanto ciò che abbiamo appena detto sia soltanto in parte vero.
È vero che tutto si gioca all'interno di un accordo di finzione, ma è altrettanto vero che, ciò che si vive partecipando, è molto lontano dall'essere finto: le emozioni messe inevitabilmente in gioco sono reali, dal momento che ognuno si trova a confrontarsi con i propri vissuti relativi all'evento, da qualunque parte si trovi a viverlo.



È altrettanto vero, poi, che la pianificazione è uno strumento non solo utile, ma indispensabile per una buona riuscita di un intervento in emergenza. Non si può pensare ad un intervento di questo tipo senza considerare una grande quantità di ingranaggi che devono funzionare insieme.
Una breve descrizione dello scenario forse renderà più comprensibili alcuni commenti.
Durante una gara di rally una macchina esce fuori strada e finisce per urtare il palco montato in occasione della premiazione, facendolo crollare. Nell'incidente rimangono coinvolte, oltre ad una seconda automobile, numerose persone tra autorità, giudici di gara e spettatori, molti dei quali rimangono intrappolati sotto le lamiere del palco crollato.
Arrivano i primi soccorsi: i vigili del fuoco mettono in sicurezza le auto coinvolte nell'incidente e il luogo stesso, dopodiché si occupano di una prima valutazione delle vittime. Confusione, paura e disperazione delle vittime rendono il momento ancora più drammatico.



Cominciano ad arrivare i soccorsi medici: feriti gravi vengono portati via velocemente, i feriti vengono trasferiti nel Posto Medico Avanzato, allestito immediatamente in una tenda poco distante dallo scenario.
Non molto lontano, ma in posizione sicura, è stata allestita anche la tenda del primo soccorso psicologico, dove viene effettuato il triage psiclogico delle vittime. All'interno di questa tenda viene fatta una prima valutazione dello stato psicoogico delle vittime, si iniziano i primi interventi di aiuto. Alcune vittime vengono trattate direttamente sul posto, altre vengono inviate al Centro di Prima Accoglienza. Il Centro di Accoglienza, allestito in un luogo discosto dalle due tende dei posti medico e psicologico avanzati, è destinato all'intervento di aiuto psicologico, all'accoglienza dei bambini, alla comunicazione con i familiari delle vittime.
La presenza di psicologi era inoltre prevista all'obitorio, per offrire sostegno ai familiari delle vittime durante il riconoscimento delle salme.
Già questi pochi cenni dovrebbero dare un'idea del numero elevato di persone che hanno partecipato alla simulazione, nonché della complessità di tutta l'operazione.
Le colleghe di Psic-ar che hanno interpretato il ruolo di vittime e spettatori erano già previste e preparate dalla sera del sabato. Come sottolinea la Dott.ssa Proietti "questo ruolo mi è servito moltissimo per vedere e sperimentare il punto di vista della persona che si trova ad affrontare un evento traumatico. Mi sono spesso domandata, infatti, come ci si possa sentire dopo un evento del genere e di cosa si possa avere bisogno in questi casi, visto che lo psicologo, per effettuare un intervento deve partire proprio dal bisogno dell’individuo". Secondo la Dott.ssa Palombelli "Questa esperienza è stata molto utile sia per capire le emozioni che si provano in casi di emergenza sia per capire l' organizzazione dei soccorsi".

Le autrici di questo articolo si sono trovate ad osservare il tutto da una posizione privilegiata. Siamo state infatti chiamate ad intervenire ad azione già iniziata. Il nostro compito era quello di "complicare" una situazione che sembrava troppo tranquilla. Troppo tranquilla per gli psicologi. Siamo allora entrate nella scena simulando dei notevoli scompensi psicologici dovuti al trauma subito: dei "casi difficili", con diverse sintomatologie. Questo "imprevisto" ci ha permesso di osservare da dentro ciò che succedeva, dalla prospettiva di una persona che aveva bisogno di molto aiuto, e che quindi era direttamente coinvolta nell'accaduto. L'impressione iniziale è stata quella di essere smarrite, senza punti di riferimento. Dopo aver girovagato senza meta precisa, abbiamo cercato di portare ulteriore confusione sulla scena e abbiamo cercato (a volte riuscendoci) di entrare dove non ci era permesso, siamo state individuate come persone che necessitavano di aiuto psicologico, e quindi inviate nella tenda predisposta per il triage psicologico.
Da questo momento in poi è iniziata la "presa in carico" da parte degli psicologi. Uso questo termine proprio perché la sensazione che si prova, tra le altre, è proprio quella di essere "presi", con i suoi risvolti positivi e negativi. Positivi perché, seppur nella finzione, la sensazione che si prova è di confusione, ansia, smarrimento, e in questo caso essere assistiti da persone che sappiano spiegare cosa ci sta succedendo, da cosa dipendono (almeno in parte) le sensazioni che stiamo vivendo è di grande conforto. Il semplice fatto che qualcuno riconosca gli stati d'animo provati aiuta a renderli più reali e quindi meno spaventosi. A volte anche una semplice informazione sull'accaduto può aiutare a ristabilire un senso di continuità che in quel momento era andato perso. Come sottolinea la Dott.ssa Budini "Sul luogo dell’impatto la persona ha bisogno di informazioni precise e univoche: aspetti qui x minuti, faccia questo, questo significa x. Il prima possibile va allontanata dalla zona rossa: ha bisogno di sentirsi al sicuro e di sapere che lo sono anche i cari" (vedi approfondimenti).
Così come è di grande aiuto trovare contenimento alla nostra ansia, spesso anche alla nostra rabbia.

Negativi perché l'essere presi ha qualcosa in comune con la sensazione di essere catturati, di essere portati via quando vorremmo rimanere sul luogo, di essere costretti ad aspettare quando vorremmo agire, di essere costretti ad affrontare la nostra impotenza di fronte ad un evento. La sensazione che ho avuto è stata quella di dovermi uniformare a delle procedure, come se io, vittima, dovessi conformarmi a ciò che la scheda di triage diceva di me, a ciò che un collega riportava di me ad un altro collega, all'intervento che era stato pensato per me. Senz'altro questo dipende dal dover garantire un sostegno a tutte le persone coinvolte: l'organizzazione, in questo caso, è l'aspetto principale, ed ogni organizzazione può correre il rischio di essere rigida. L’essere vittime ci ha spinto a riflettere molto sull’effetto di un buon intervento da un punto di vista diverso, le nostre riflessioni sono partite dall’esame di quello che avremmo voluto in quel momento, cosa che come psicologhe probabilmente non avremmo potuto fare. Capovolto il punto d’osservazione ci siamo rese conto che da psicologhe ci saremmo soffermate di più sull’efficacia del nostro intervento a livello di organizzazione e comunicazione interna rendendola sempre più precisa ed efficace. Ciò, pur essendo fondamentale per la buona riuscita di un intervento in emergenza, non può prescindere da quello che come vittime abbiamo sentito o avremmo voluto, dai bisogni che come vittime abbiamo manifestato. Come psicologhe conosciamo le emozioni, le reazioni, le difese... ma spesso non abbiamo mai provato neanche nella finzione a stare al di là, il nostro intervento pertanto rischia a volte di diventare troppo autoreferenziale. Nulla di sbagliato in questo, ma certamente può essere molto utile sentire quanto un tono di voce o una mano ferma siano importanti e quanto invece un’adesione sterile alla procedura dannosa ed irritante. In qualità di vittime abbiamo sperimentato quanto pesanti possano essere un triage senza un reale ascolto, un triage fatto di domande sicuramente molto utili agli psicologi, ma  profondamente irritanti per una vittima che non riesce a togliersi dagli occhi la scena che ha vissuto o che disperata cerca un proprio caro nel terrore di averlo perso per sempre o ancora che si sente responsabile.... Nelle molteplici sfumature che l’evento ha disegnato sui volti delle vittime non trova spazio una domanda del tipo "ha mai sofferto di disturbi psichici?" Perchè da vittima non ne capisci il senso e peggio non ti senti capito e accolto. In quei momenti in cui la ricerca di senso è fondamentale come il bisogno di essere tenuti e contenuti credo sia importante per noi psicologhe avere il coraggio di accogliere il dolore e l’ansia in maniera autentica e personalizzata "ci sono e sono qui per te", "sono pronto a rispondere alle tue domande, se ancora non ci sono risposte le cercheremo insieme". Il triage pertanto non può e non deve diventare "ora ti faccio alcune domande", "ci siamo per tutti ma ora per nessuno". Ciò lo trasformerebbe da strumento importante per la definizione di un intervento efficace e tempestivo in uno strumento sterile e dannoso che non solo non favorisce un rapporto ma lo delude prima ancora di renderlo pensabile nella mente della vittima.

A partire dal triage, molte sono le criticità emerse: "non eseguito correttamente ha avuto delle ripercussioni sull'intervento successivo". A questa critica si è risposto con l'invito a considerare con attenzione la scheda di triage stessa: spesso, infatti, quest'ultima risulta, proprio perchè molto articolata, eccessivamente complessa. In una situazione di emergenza non si ha il tempo necessario per valutare correttamente molte dimensioni contemplate nella scheda, per cui si finisce col generare ulteriore confusione. Del resto, anche quando fosse possibile riempire la scheda con precisione, questo si tradurrebbe in un dispendio notevole di tempo, a discapito della vittima, la quale avrebbe forse più bisogno della nostra attenzione e del nostro sostegno.
Il passaggio delle persone attraverso diverse strutture è un altro nodo problematico. Le vittime stesse hanno riferito che l'essere inviate da uno psicologo ad un altro ha contribuito a generare confusione, ad aumentarla dove era già presente, ad incrementare la rabbia e la frustrazione dovuta non solo al non conoscere il motivo di questi passaggi, ma anche e soprattutto al non poter stabilire una relazione sufficientemente duratura con un operatore, cosa di cui invece si ha estremo bisogno durante un evento catastrofico, come sottolinea la Dott.ssa Budini "Mi sentii passata dall’una all’altra come una palla" (vedi approfondimenti).
I numerosi passaggi non sono soltanto fonte di irritazione per le vittime, ma anche responsabili della perdita di molte informazioni sulle vittime stesse. Ha trovato molto accordo la critica del Dott. Cusano secondo cui spesso la valutazione psicologica di una vittima fatta all'inizio non ha avuto seguito durante l'intervento. Le vittime avevano come unico segno di valutazione la scheda di triage che loro stessi portavano in mano nel passaggio da un operatore ad un altro: spesso le schede non venivano considerate, oppure le persone le smarrivano o le strappavano, e questo si è tradotto nella necessità di procedere ogni volta ad una nuova valutazione, con lo svantaggio di impiegare del tempi che invece potrebbe essere utilizzato per stabilire una relazione con la vittima senza generare in quest'ultima ulteriore confusione. Si è proposto, perciò, di utilizzare dei braccialetti colorati che rendano immediatamente evidente la valutazione psicologica che è stata fatta al triage, in modo da non disperdere informazioni utili.
Nel Centro di Prima Accoglienza si è concentrata la maggior parte delle persone che necessitavano di un intervento psicologico. Questo ha generato una confusione notevole, tanto che ad un certo punto è stato necessario sospendere la simulazione e ristabilire ordine, invitando i simulatori ad abbassare i toni. Molta della confusione è stata dovuta al fatto che nel Centro si sono concentrati molti parenti delle vittime, che premevano per avere notizie dei propri familiari. Fronteggiare questa situazione, spiega la dott.ssa Rita Di Iorio, coordinatrice del centro durante l'esercitazione, è stato particolarmente difficile in quanto, oltre alla numerosità elevata di persone da gestire, erano presenti  alcune persone altamente disturbanti, le quali non facevano altro che aumentare stati di tensione all'interno della struttura; in situazioni reali di emergenza queste persone sarebbero state allontanate dalle forze dell'ordine, che in questa simulazione non erano presenti, altre diagnosticate Psi 3, sarebbero state inviate all’ospedale. Inoltre, cosa non meno importante, non bisogna dimenticare che la comunicazione è un elemento fondamentale, su cui si deve lavorare molto durante un'emergenza. Non è facile, infatti, sapere cosa sta succedendo a pochi metri da noi, come stanno operando i colleghi, di cosa e di chi si stanno occupando. È necessario, quindi, che un intervento in emergenza tenga conto di ciò e si organizzi affinché la comunicazione sia il più possibile costante, veloce e precisa.
La simulazione pertanto ha messo in luce ciò che va migliorato negli interventi di soccorso psicologico. Lo scopo della simulazione, infatti, è proprio quello di rendere evidenti i problemi nella gestione dell'intervento, vivendoli direttamente. I nodi problematici non oscurano la professionalità e l'impegno con cui tutti abbiamo partecipato, il buon coordinamento tra colleghi, l'attenzione alle vittime come principali "attori" della scena ma costituiscono uno stimolo a fare sempre meglio.


TESTIMONIANZE DI SIMULAZIONI NEL RUOLO DI VITTIME
Luana Proietti

L’esercitazione sulla maxi emergenza è stata per me molto utile. Si trattava di una macchina da rally andata contro degli spalti non costruiti a norma, che ha provocato il ferimento e la morte di alcune persone. Io simulavo una paesana accorsa sul luogo del disastro in cerca di eventuali amici o familiari coinvolti nell’incidente.
Per quanto riguarda l’aspetto emotivo, questa esercitazione, mi è servita moltissimo per vedere e sperimentare il punto di vista della persona che si trova ad affrontare un evento traumatico. Mi sono spesso domandata infatti, come ci si possa sentire dopo un evento del genere e di cosa si possa avere bisogno in questi casi, visto che lo psicologo, per effettuare un intervento deve partire proprio dal  bisogno dell’individuo. Mi sono domandata anche, se nel luogo di un disastro potesse essere utile formulare un intervento psicologico o se fosse solo dannoso ed invasivo perché non richiesto. Ora posso dire che simulando una vittima e mettendomi nei suoi panni mi sono data alcune risposte.
Per prima  cosa  ho provato davvero panico e confusione e quindi il mio bisogno è stato quello di sentirmi accolta, riconosciuta e tranquillizzata. Mi sono così risposta anche alla seconda domanda: visto che c’è un bisogno c’è anche una richiesta di aiuto, implicita o esplicita che sia. Ho notato poi che in questa situazione, nella maggior parte dei casi la richiesta era implicita.
Oltre alla comprensione emotiva, ho capito meglio come si interviene in una emergenza: c’è un primo soccorso da parte della Protezione Civile e della Croce Rossa, si effettuano immediatamente dei triage medici, cioè delle valutazioni per stabilire le priorità d’intervento, si inviano poi le vittime nei posti specializzati (posto medico avanzato, area deceduti, ospedali e centro di accoglienza) dove effettueranno i trattamenti di cui hanno bisogno, diretti e gestiti dalle varie figure che si occupano dell’emergenza.
Gli psicologi effettuano il loro intervento nell’area deceduti, per dare sostegno ai familiari delle vittime, e nel centro di accoglienza per dare sostegno ed a volte semplicemente informazioni a tutte le vittime primarie, secondarie e terziarie dell’evento. Anche lo psicologo attraverso il triage psicologico valuterà la priorità d’intervento sugli individui.
L’esercitazione sulla maxi emergenza ci serve molto per capire sia gli aspetti emotivi sia gli aspetti organizzativi che riguardano questi eventi, per lavorare sui deficit d’intervento e per non essere impreparati quando purtroppo si dovrà intervenire in un teatro d’emergenza reale.



LABORATORIO SULLE MAXI EMERGENZE

Il laboratorio sulle maxi emergenze, diretto dal dott. Michele Cusano, ci ha fornito degli approfondimenti teorici, storici e pratici sull’intervento dello psicologo in una situazione d’emergenza su larga scala.
Siamo partiti da un’exursus storico fatto proprio dal dott. Cusano sul ruolo dello psicologo in un contesto simile, vedendo che, è a partire dagli anni ’60, grazie all’emergere di alcune teorie psicologiche e sociali, che lo psicologo è entrato a lavorare nei contesti d’emergenza, dove fino a quel momento avevano avuto rilievo solamente il danno fisico ed economico delle persone e dei territori colpiti.
Abbiamo trattato tutte le fasi e i luoghi e i ruoli dell’emergenza con la dott. ssa Cristiana Dentone, per chiarire i tempi e le modalità d’intervento.
Con il dott. Angelo Napoli ci siamo soffermati sull’importanza della valutazione e di come può essere inficiata in un contesto simile da variabili quali l’urgenza dell’intervento ed il bisogno di contenimento.
Siamo poi passati ad esaminare con la dott. ssa  Marta Viappiani le ripercussioni psicologiche sui soccorritori, parlando dell’importanza di una verbalizzazione ed analisi delle emozioni che si trovano a vivere in situazioni d’emergenza per evitare una traumatizzazione vicaria.
Con il dott. Carmelo Di Fresco abbiamo definito cosa sono il "danno esistenziale" ed il "danno biologico-psichico", importanti sia per un risarcimento economico alle vittime sia soprattutto per il bisogno di un risarcimento e riconoscimento morale di ciò che hanno dovuto subire.
Il laboratorio è terminato con le preziose testimonianze degli psicologi che hanno fatto le esercitazioni sulle emergenze in Valtellina sottolineando ancora una volta quanto sia importante esercitarsi per essere preparati e non fare errori nell’eventualità di vera emergenza.



VITTIMA NELL’EMERGENZA
Chiara Budini
(Dott.ssa in Psicologia dell’Educazione e in Psicologia del Benessere nel Corso di Vita)

Sedevo in tribuna accanto al mio fidanzato, Alessandro, per assistere al Rally. Eravamo venuti insieme da Trento, con il treno. Poi l’auto è uscita di strada e ha travolto la nostra tribuna. Nel giro di pochi minuti l’ho ritrovato: Alessandro era steso in terra, bloccato da una delle panche di metallo sulle quali sedevamo poco prima, troppo pesante perché io riuscissi a spostarla. Ma soprattutto aveva un’asta di metallo conficcata nel petto e respirava male. Intorno c’era un gran caos: gente che urlava, gente che piangeva. Qualcuno ha chiamato i soccorsi, qualcun altro è venuto a vedere com’era la situazione, ma nessuno mi aiutava. Ho cercato aiuto. Non capivo perché nessuno facesse qualcosa per aiutare Alessandro: era chiaro che stava male eppure non lo toglievano da lì. Mi sentivo impotente per non poterlo aiutare neanche trovando qualcuno che lo aiutasse al mio posto. Nessuno mi ha spiegato cos’era quel laccio rosso che gli hanno messo al polso. Ho trovato conforto da un operatore della Croce Rossa che mi ha dato indicazioni precise: stagli vicino, riscaldalo.
Poi mi hanno detto che se ne sarebbero occupati loro e mi hanno accompagnata in un posto da cui non vedevo i feriti. Non sapevo più nulla di Alessandro. Sono arrivate due signore molto tranquille e accoglienti (psicologhe del posto) alle quali ho spiegato l’accaduto. Mi hanno riaccompagnata sul luogo dell’incidente e ... Alessandro non c’era più! Dove lo avevano portato? Chi? Il ragazzo con il palo nel cuore, te lo ricordi, lo hai visto? C’era la giacca che gli avevo lasciato, ma lui? Al PMA mi rispondevano. Che cos’è questo PMA? Insomma, ma come parlano questi medici?! Avevo bisogno di informazioni: sapere dov’era e come stava Alessandro, quali giri fare per vederlo, a chi chiedere, ma nessuno rispondeva. Poi riuscii a sapere che PMA è la tenda del medico. Allora lo stavano curando. Bene. Come sta? In cerca di informazioni mi muovevo per il campo chiedendo all’uno e poi all’altro. Le psicologhe alle calcagna. Ma cosa volete da me? Lasciatemi! Non sono una detenuta! Ok, ok, andiamo al PMA. Era passato un sacco di tempo da quando Alessandro era stato portato via. Giunti al PMA Alessandro non c’era. Ecco, abbiamo fatto tardi, cavolo! Dov’è Alessandro? Chi? Il ragazzo col palo nel cuore, ve lo ricordate? Sì. In elicottero l’hanno portato all’ospedale di Verona per essere operato d’urgenza. Bene. Allora vado a Verona. Signorina, non si può muovere da qui prima di essere registrata. Ma io devo andare a Verona: il mio ragazzo è lì, potrebbe non farcela. Va bene, registratemi in fretta e chiamiamo un taxi. Signorina deve passare alla postazione psicologica. Perché? Io so dove andare, mi serve solo un passaggio alla stazione. Alessandro è lì, a Verona, potrei non fare in tempo! Chiedevo aiuto alle psicologhe che mi avevano accompagnata fin lì e loro cercavano di aiutarmi, ma non indossavano alcun segno distintivo del loro ruolo e si dovevano fermare spesso a rendere conto della loro situazione. Insomma mi erano più di impaccio che di aiuto, non avevo molto tempo! Allora andavo a cercare altrove. Dove scappa signorina? Cerco un taxi, non mi tenete per i polsi! Non sono una delinquente! Deve andare a parlare con una psicologa! Io ce l’ho la psicologa, ci ho parlato fino adesso, che ve ne importa se non ha la pettorina verde?! Poi il dott. Cusano me lo ha spiegato: prima lei deve lasciare i dati alla psicologa, poi sarà accompagnata al centro d’accoglienza dove c’è il punto informazioni. Lì le saranno date le risposte che cerca. Va be’ se serve per avere un taxi…con chi devo parlare? La psicologa si sedette di fronte a me: cos’è successo? Sfinita ricominciai per l’ennesima volta il mio racconto. Ascoltava e annuiva. La sentii vicina, mi lasciai andare e piansi tutta la mia paura e la mia tristezza: voglio solo rivedere Alessandro, dov’è? Come sta? Ma quella era solo l’accoglienza del triage. La psicologa che mi aveva ascoltato mi disse di dare i miei dati a una collega. Mi sentii passata dall’una all’altra come una palla. Non sapevo più neanche dove fossero finite le psicologhe dell’inizio… che era quest’altra? Sì, nome, cognome…perché scrive che sono ansiosa? Vorrei vedere lei se il suo ragazzo avesse un palo conficcato nel cuore! (Cretina!) che cavolo vuol dire che non me ne posso andare perché sono agitata…lei che farebbe al posto mio!? Devo prendere il taxi, mi lasci andare! Finalmente una quarta o quinta o forse sesta persona mi accompagnò al centro di accoglienza. C’erano i dottor Clowns. Decisamente fuori luogo, pensai. Ufficio informazioni. Cerco notizie di un ragazzo, Alessandro Necci, ricoverato all’ospedale di Verona con un asta metallica nel petto. Mi chiamo Chiara Budini. Vado a Verona a trovarlo. Perché non posso andare? Che vuol dire che mi devo sedere con gli altri a parlare con la psicologa? Un’altra? Insomma ero seduta da un pezzo e non mi facevano uscire né mi davano notizie di Alessandro. Allora tornai al punto informazioni e incontrai l’ennesima psicologa. Sto bene, le dissi. Allora mi fece uscire e andai a Verona, ma Alessandro non c’era. Seppi che pochi minuti dopo che ero uscita era arrivata la comunicazione che Alessandro era ricoverato a Trento.

Non ero sono mai stata vittima in una situazione di emergenza. La simulazione mi ha offerto un punto di vista nuovo e diversi spunti di riflessione.
Una vittima psicologica ha innanzi tutto bisogno di sicurezza. Chiede aiuto e non sa perché gli operatori sanitari non intervengono subito. Ha poi bisogno di informazioni e non necessariamente comprende il linguaggio medico: PMA, triage, braccialetti rossi, gialli o verdi. Non sa cosa fare, non sa quanto aspettare prima di preoccuparsi di nuovo. È spaventata per quello che vede, ma come può lasciare la zona rossa se c’è lì una persona cara?
Sul luogo dell’impatto la persona ha bisogno di informazioni precise e univoche: aspetti qui x minuti, faccia questo, questo significa x. Il prima possibile va allontanata dalla zona rossa: ha bisogno di sentirsi al sicuro e di sapere che lo sono anche i cari.
La prima persona che incontra la vittima e la prende in carico dovrebbe seguirla fino alla fine: è doloroso sentirsi sballottati da una parte all’altra, passati da una persona all’altra a parlare di cose emotivamente coinvolgenti. Per quanto possa attenuare le conseguenze traumatiche a lungo termine raccontare tante volte a diverse persone l’accaduto fa aumentare troppo il dolore.
È necessario che gli operatori dell’emergenza lavorino in sintonia: incomprensioni tra loro aumentano la tensione. Per esempio le psicologhe del posto, una volta presentatesi, andrebbero immediatamente dotate di un riconoscimento per evitare di dover render conto a ciascuno della loro posizione.
La scheda di triage deve essere progettata diversamente: sarebbe più opportuno segnalare le cause del malessere accanto ai sintomi. Chi legge "ansioso grave" senza sapere che il motivo è che il fidanzato della vittima è gravemente ferito e lei non sa dove sia, non sa quanto adeguata sia la risposta emotiva in atto. La vittima, infatti, invece di sentirsi accolta si sente etichettata e percepisce svalutato il proprio dolore. In ogni caso è opportuno che quanto scritto sulla scheda non sia visibile alla vittima.






 
 
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